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Libri letti e da leggere.
Buoni propositi e cattive azioni.

martedì 29 settembre 2009

Sguardo fisso (e le regole per il confronto tv tra i candidati segretario del Pd)

Leggo su "La Stampa" di oggi che i candidati alla segreteria del Pd stanno fissando le regole per il confronto tv in vista della sfida elettorale. Lo leggo sicuro di sapere già il contenuto. Chiudo gli occhi e immagino: "Il confronto avverrà in una grande piazza. La partecipazione è aperta a tutti coloro i quali lo vorranno. Il dibattito non avrà limiti temporali se non quello dell'esaurimento delle domande da parte della platea intera. Tutti infatti potranno rivolgere domande ai candidati senza limiti d'argomento. La platea potrà partecipare al dibattito applaudendo, fischiando, interrompendo il candidato e chiedendo ulteriori spiegazioni qualora il candidato fosse elusivo nella sua risposta. Le telecamere gireranno liberamente per la piazza per riprendere i volti dei partecipanti, ascoltare i loro capannelli mentre grandi altoparlanti diffonderanno le voci dei candidati".

Poi ho riaperto gli occhi. Avevo scommesso con me stesso, non quante regole (sicuro di averle indovinate tutte), ma quante parole del giornalista avrei indovinato. Leggo.
"Prima regola: i tre aspiranti leader del Pd non potranno assolutamente guardarsi tra loro. Vietato. Consentito, anzi obbligatorio, lo sguardo fisso: verso la telecamera e verso il pubblico in sala. Seconda regola: i cameraman non potranno prendersi distrazioni, dovranno inquadrare, senza mai abbandonarlo, solo e soltanto il candidato parlante. Terza regola: il giornalista incaricato di moderare il confronto non potrà replicare e neppure chiedere un chiarimento ad un candidato evasivo o poco chiaro".

Non credo ai miei occhi. Poi ripenso a quella filastrocca: "..questo non è un partito nuovo, ma un nuovo partito".


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mercoledì 23 settembre 2009

Morti

Morire il giorno 17. Rimanere steso sull'asfalto, un telo sopra e intorno una corona di lacrime. La retorica ci ha consegnato moltissime frasi fatte per infarcire il racconto di una morte sul lavoro: "non deve accadere mai più", "non è possibile che un uomo esca di casa la mattina per andare a lavorare, e la sera non torni". Non sono servite a nulla.

Mogli inconsolabili. Figli orfani. Amici smarriti. Ogni lutto lascia dietro di se una scia di dolore ancora più grande del lutto stesso. Tratti comuni di episodi uguali. E un altro aspetto che si ritrova spesso in questi episodi: l'accento del sud. Quel sud ricco di sole, umanità, spirito di accoglienza, ma povero di lavoro e di opportunità

Allora via. Si parte. Tanti sogni nella valigia e la nostalgia di casa sempre in tasca. E si arriva in una terra lontana, a volte ostile, sicuramente sconosciuta. Si lavora, si chiama casa, si ride e si scherza per esorcizzare la comune malinconia, si parla il più possibile per allontanare la nostalgia.

Poi capita che un giorno, magari di 17, si cada al suolo. Un botto eppoi il silenzio. Quel silenzio dopo un rumore fortissimo che fa più frastuono del botto stesso. Stesi. Orizzontali. E non ci si rialza più. Ci si era alzati la mattina per fare il proprio lavoro e la sera non si ritorna a casa (anche se in realtà la casa è a migliaia di chilometri di distanza).

Questa è una storia inventata. Inventata per non far torto a Simone, Fabrizio, Celestino . Per non far torto a Fausto e Giancarlo, morti proprio ieri. Raccontare una storia in particolare avrebbe tolto spazio ad un'altra. E non sarebbe stato giusto.

Si, questo post è scritto pensando ai sei parà della Folgore uccisi in un attentato a Kabul.
Possono essere considerati morti sul lavoro? Non lo so, ma me lo sono chiesto.

E come nello spirito del blog, non mi sono (e non ho voluto dare) risposte.
So, però, che nè Simone nè Fabrizio avranno funerali di Stato, medaglie sul petto e onori. E nemmeno Fausto e Giancarlo li avranno. Eppure, anche loro erano persone oneste che lavoravano per loro stessi e per il loro Paese, magari per costruire case dove uno di noi sarebbe andato ad abitare o per trasportare il cibo che troviamo sulle nostre tavole.
Ognuno serve il proprio Paese come meglio crede. Mi ha molto impressionato, però, la lunga lista di "morti sul lavoro" che ho trovato su 2 blog e che non trovano spazio sui giornali nè telegiornali.

In conclusione linko due punti di vista contrapposti. Uno l'ho trovato su un blog, l'altro è "L'Amaca", la rubrica quotidiana di Michele Serra su "Repubblica".


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venerdì 18 settembre 2009

Ho incontrato la Sinistra

Avevi i capelli bianchi. Ma non era vecchia. Era un ultimo vezzo all'anticonformismo. Quei capelli sale e pepe erano un atto di ribellione nei confronti di tutte le altre capigliature tirate a lucido, tinte per non accettare il segno del tempo che passa, trascurati contro il narcisismo imperante.

Seduti a tavola ha cominciato a parlare di se stessa. E siamo andati avanti così per un pò. Quando i primi segnali di noia cominciavano ad affiorare, ecco che qualche giustificazione di tutto quell'esser concentrata su se stessa usciva fuori. Ne ha passate tante nella sua vita. Sventure, sfortune, episodi tristi, a volte figli di quella sregolatezza che è sempre stata sua compagna di viaggio.

Eppoi in tutto quel parlare, con lei sempre protagonista, è sembrato di riaprire un vocabolario impolverato. Gli amici sono compagni, ogni iniziativa è un atto di lotta, l'esser in disaccordo diventa un atto di resistenza.

Eppoi Cuba. Si, si, Sinistra ne parla sempre. E' stata, e forse è ancora, la sua bandiera. Una bandierina puntata su un'enorme mappa, in angolo remoto, a indicare una presenza. Per molti una meta, un sogno. Ma Sinistra lo sa. E oggi ammette gli errori commessi in quella terra lontana. Ma Cuba è sempre lì, nei suoi discorsi.

Eppoi gli anni d'oro, i tempi di quando erano in tanti dietro la sua bandiera. E nel discorso, ancora su di lei, pare desiderare tornare indietro a quegli anni oppure trasformare questi, di anni, come quelli lì, lontani.

Poi mi sono alzato dal tavolo. C'era un gatto che giocava con una busta ed era divertentissimo allontargiela e vedere igesti fulminei della zampetta per provar a riacciuffarla. Ma Sinistra non è rimasta sola. C'erano altri commensali seduti attorno a Lei. Pochi, ma attenti ai suoi discorsi, ai suoi ragionamenti. Appassionati nel far da spettatori ai suoi salti, uno indietro, uno avanti.

Poi sono andato via. Il pranzo era finito da un pezzo ma la noia domenicale aveva allungato il convivio a dismisura. Sinistra era ancora lì. Con i suoi pochi uditori. A parlare di se stessa.


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mercoledì 16 settembre 2009

La minoranza (non siamo noi)

La minoranza non siamo noi. Non siamo mai noi. La minoranza è il nostro collega che in ufficio ci siede nella scrivania di fronte, il vicino di casa, un parente, un amico, un conoscente. Ma noi no.
Noi facciamo parte della maggioranza. Non siamo noi a cui spesso la maggioranza di questo governo si rivolge quando parla di "fannulloni" o "maestri politicizzati". Quelli sono una minoranza, non noi. Noi (lavoratori della pubblica amministrazione o meno, maestri o no) siamo la maggioranza.

Sono gli altri a perdere il loro tempo sul posto di lavoro facendo altro, sono loro che passano ore al telefono dell'ufficio organizzando il week-end, sono loro che si imboscano per fare il meno possibile, sono loro che si danno malati il venerdì, sono loro che dovrebbero fare e non fanno. Noi no.

Noi siamo la maggioranza ligia al dovere, inflessibile sugli orari e sui comportamenti, sempre disposti ad aiutare chi ha bisogno, disponibili a dare una mano al collega anche fuori dall'orario di lavoro.

E' per questo che la ministra Gelmini non c'è l'ha con noi quando dice "Quando invito alcune persone a uscire dal mondo della scuola, mi riferisco ad una minoranza che fa politica." E non siamo ancora noi quando il ministro Brunetta parla dei fannulloni e il sindaco di Roma Alemanno dice "Sono convinto che la gran parte di coloro che lavorano nella Pubblica amministrazione non siano fannulloni, ma che si tratti solo di una piccola minoranza".

Quindi tranquilli. Non siamo noi.


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mercoledì 9 settembre 2009

...e l'uomo della scorta portò dentro il carrozzino

"Scusate ma ora devo andare". Quando la signora ha pronunciato queste parole, l'uomo della scorta era già sparito con il carrozzino oltre il cancello. E lei, con gli occhi gonfi di lacrime e il proprio bimbo stretto al petto, non sapeva se crederci o no. Ci aveva già provato stamattina, ma era andata male. Stasera si è ripresentata sotto palazzo Grazioli e ha aspettato. Il presidente del Consiglio era dentro per decidere sulle candidature per le prossime elezioni regionali insieme ai coordinatori del partito. Lei fuori con il suo carico di problemi che non ha voluto raccontare a nessuno. Ha avuto la pazienza di aspettare. Un'ora. Un'ora e mezza. Poi la scorta ha bloccato la strada e si è schierata. Era il segnala della partenza del Presidente. Lui era nella seconda macchina. Il corteo era formato e si è avviato. Poi lo stop. Quattro, cinque macchine tutte di color scuro e coi vetri impenetrabili ferme. Lei immobile. Forse convinta dalle parole di un uomo della scorta che poco prima che il Presidente uscisse, si era avvicinato al suo orecchio a dirle "Non provare a rifare quello di stamattina. Hai pure tuo figlio in braccio. Stai attenta. Non lo fare perchè tanto io ti blocco". Lei aveva avuto il coraggio di sussurrare solo poche parole "Ma io ho dei problemi". Poi l'uomo della scorta si era fatto meno duro, ma cinico: "Signora, in Italia siamo 60 milioni. Se tutti quelli che hanno un problema cercassero di buttarsi sotto la macchina del Presidente...Non si può fare".
Quando dalla seconda macchina ferma è sceso il Presidente, tutte le persone che si erano fermate per vedere il passaggio del corteo avevano uno sguardo a metà tra la curiosità e la sorpresa. Lui l'ha cercata con lo sguardo. Le ha fatto segno di avvicinarsi. La scorta che in pochi secondi si era stretta intorno al Presidente l'ha fatta passare. Poche parole. Un bacio sulla fronte del pupo. Poi le lacrime che scendono sul viso mentre il corteo riprende il via.
"Signora, cosa le ha detto?". "Che mi aiuta. Mi ha detto di salire e mi ascolterà. Ora scusate ma devo andare".


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martedì 8 settembre 2009

Firme false (come a scuola)

Il posto più sicuro dove nascondere un diamante è nell'acquario. Lì sotto gli occhi di tutti. Palese. Talmente evidente che nessuno ci cerca mai.

Così a volte per fare un colpo giornalistico basta cercare vicino vicino. A un palmo dal naso. E a volte si è pure gli unici a farlo. Così ha fatto Cristiano Gatti, che su "Il Giornale" di oggi racconta come "La Repubblica" è riuscita in poco tempo a raggiungere le 280mila adesioni al proprio appello per la libertà di stampa. Topo Gigio (firma numero 259.964), Silvio Berlusconi (n. 261.814), eppoio Emilio Fede, Maradona, Cuba Libre........

No, non andate a cercarle. Sono state tutte rimosse. Ma la burla non è finita. Stamattina (ore 12) la firma numero 286.058 era di Andrej Kojmaski. In più, due Roberto Lovaglio, Carlito "Charlie" Brigante, Simone Pasotti, Luisa Menegazzo, addirittura tre Sandro Pasotti. Ma i casi sono numerosisimi. Segnare i numeri è inutile perchè sono in continua evoluzione e forse il giornale sta cancellando qualche doppione o qualche firma-burla.

Ognuno ha il giudizio che ritiene più giusto sull'appello, sulle posizioni di "La Repubblica" nei confronti di Berlusconi e su quelle di Berlusconi sulla stampa.

Le cose ridicole, invece, sono cose ridicole.


Ps: in chiusura di post si sono aggiunti Massimo Moratti e Sandro Mazzola. Tutto è possibile...

Pss: il post è in continua evoluzione. Sul sito di "La Repubblica" è apparsa questa risposta all'articolo de "Il Giornale".


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venerdì 4 settembre 2009

Alt!

Ci sono immagini che raccontano lo stato di salute di un Paese meglio di tante analisi, saggi o ricerche demoscopioche. Certo, sono immagini e tali restano, ma valgono la pena essere raccontate.

Ieri stavo andando a Palazzo Chighi per raccontare il primo Consiglio dei Ministri dopo le vacanze. Ero con due colleghi giornalisti e stavamo andando in autobus. L'inizio era previsto per le 12 e così, dato che erano circa le 11.50, eravamo un pò agitati credendo di arrivare in ritardo.

Arrivati all'altezza di piazza San Silvestro una sirena della polizia si è avvicinata verso di noi. Il carabiniere in motocicletta ha fermato l'autobus dove viaggiavo e anche quello che proveniva nella direzione opposta. Nel frattempo le sirene sono diventate 3, forse 4, in un ululato fortissimo e interminabile.

Nello spazio tra i due mezzi pubblici si sono infilate le 4 auto blu e si sono dirette verso piazza Colonna, proprio quella dove c'è la sede del governo. Era un ministro, ovvio. Ritardatario. Ma l'immagine non è quella del solito italiano in perenne ritardo, non curante magari dell'attesa della persona che lo aspetta.

L'immagine è quella di un Paese che cerca di muoversi, magari a fatica, cerca di fare il proprio mestiere, ma è bloccato da una classe politica spesso intenta nel soddisfare i propri interessi e disposta a tutto pur di passare avanti. Anche a bloccare tutto il resto.

Ps: è troppo facile leggere il post con gli occhi dell'antiberlusconismo. Le auto blu e le sirene accese sono sfruttate da tutti coloro i quali ne hanno o hanno avuto in passato la possibilità. Sarebbe troppo facile anche leggerlo con gli occhi dell'antipolitica. Il post è una foto. Non su gli altri. Ma su di noi.



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